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LR/RL


Florin Berindeanu

Case Western Reserve University

Nostra Signora dei Turchi:
Carmelo Bene e la voce del cinema


Carmelo Bene fin dall’inizio della sua carriera non ha fatto altro che reinventare la struttura drammatica dell’arte rappresentata sul palco o sullo schermo. Per lui la messa in scena è tutt’altro che la rappresentazione di un’azione ma l’azione stessa, come se l’attore stesse facendo i gesti o pronunciasse le parole nella vita reale. Bene ricomincia la ristrutturazione del teatro da zero nel significato più autentico della parola: il teatro, secondo l’autore, «deve essere buio e deserto».

Si parte da zero in tutti i sensi: del caos generato da identità cancellate, dell’origine dimenticata e irriconoscibilmente mutilata, del primitivismo della percezione di cui parla Deleuze in Cinéma 2.

Nel suo complesso, l’opera cinematografica di Carmelo Bene registra l’impossibilità di concepire una struttura metafisica dentro la scrittura filmica. L’apice di questa crisi estetica lo rappresenta il capolavoro cinematografico di Bene, Nostra Signora dei Turchi. Il rapporto tra finzione immagistica e tecniche vocali (l’arte del recitare, il movimento dei personaggi, la dizione) viene continuamente dipinto in maniera conflittuale. La tecnica dell’urto potrebbe riassumere meglio la poetica cinematografica di Bene: tra imagine e parola c’è sempre un rapporto teso da cui scaturisce il conflitto nel suo film.

Se per alcuni versi Nostra Signora dei Turchi è un film «mistico» la spiegazione sta nella frenesia con cui l’autore/attore cerca la via del linguaggio totale riducendolo al nulla. Il nulla non è infatti un male, anzi è l’unico rimedio «naturale» che possa contrastare l’assurdità dell’essere nati. Un poeta della non-voce e dell’autodichiarata mancanza «d’ogni vocazione poetica intesa come mimesi elegiaca della vita come ricordo», Carmelo Bene ha sempre gradito considerarsi non nato, cioè senza voce. E questo perchè la personalità artistica Bene l’ha sempre smarrita o disseminata sulle scene dove ha recitato a modo suo, senza la voce logocentrica della struttura razionale.

«Disoccuparsi di sé», come confessa lui stesso la lunga assenza dal mondo teatrale accadutagli all’inizio degli anni Novanta, è un suo modo laconico per suggerire come l’assenza della voce prestata a vari personaggi non fa altro che preparare la rinascita della voce, il ritorno a [fino pagina 283] quel punto zero dove niente nasce o muore. Tali ridimensionamenti della voce Bene li intravede anche come momentanei abbandoni di pratiche letterarie, infatti come cambi o, come li chiama lui stesso, «smarrimenti» dell’io parlante dietro le convenzioni da ristrutturare dei generi letterari.

L’affinità con l’antropologia testuale pasoliniana risulta piú che evidente, mentre non si deve dimenticare che proprio come attore di film Bene comincia dalla tragedia anch’essa «ristrutturata» da Pasolini di Edipo Re. Le parole dello stesso Pasolini confermano l’importanza del parlar «nuovo»,”una moderna trascrizione del parlar angelico dolcestilnovista: il dialogo tra l’angelico Polis e l’infernale Tetis in Petrolio corrisponde alle alternanze simili nel teatro di Carmelo Bene. Invece di fare dell’io «il luogo di produzione» da dove scaturisce il testo autobiografico, come osserva Michel de Certeau, Carmelo Bene lo considera punto di esplosione della centralità stutturante che gradualmente reciterà tutte le voci del discorso drammatico.

Lo stesso discorso vale per il cinema, che parte per tutt’e due dalla reinvenzione estetica in quanto si tratta addirittura di un cinema teatralizzato. Nel teatro e nel cinema di Bene c’è sempre la volontà insuperabile di esprimersi aldilà del narcisimo concettistico.

Nel suo libro sul cinema Deleuze colloca Bene tra gli autori che rappresentano il «corpo cerimoniale», ossia la communicazione primaria dei gesti seguiti da suoni. Convinto che il più grande problema dell’arte sia il continuo inciampare nel proprio io, Bene afferma sin dall’inizio della sua avventura estetica la necessità di «destrutturare» la vecchia maniera di fare teatro e film.

Le sue originali «variazioni» di alcuni classici (Shakespeare innanzitutto, Cervantes, Collodi, Goethe) fanno intravedere proprio il desiderio destrutturante di una voce che letteralmente vuole esprimere l’inesprimibile. I gesti di Carmelo Bene sono addirittura delle gesta: da romanzo a teatro, da teatro a cinema, da cinema a saggistica, tutto nel nome di un autore per cui l’inizio comincia infatti «prima» di qualsiasi inizio, prima di tutto. Così «in-comincia» anche il percorso cinematografico di Bene, da sè stesso, cioè dal romanzo omonimo Nostra Signora dei Turchi che non è il suo primo film in assoluto bensí il primo lungometraggio, rilevante proprio perchè estratto dal suo romanzo – nessuna sorpresa – autobiografico.

Ma avendo detto questo è come appena sfiorare dei luoghi comuni; è difficile spiegare il cinema di Bene se non come attività distributiva di suono ed immagine. L’autobiografico, l’io, spariscono dietro le parole recitate come da sonnamboli e nell’andirivieni di ripetizioni visuali in cui la distinzione tra immagine ed immaginario non esiste. Anzi essa esiste ancora come produzione ossessiva dei luoghi comuni dell’arte: la morte e [fino pagina 284] la bellezza incompiuta, come d’altronde, ricordiamocelo, l’autore vede la vita stessa. Colpisce quindi il dialogo tra la memoria (storia del passato) ed il memorabile (il presente della duplicità soggettiva) nel film di Bene; tale duplicità ha l’origine nella formula progettistica dell’autore che può essere definita come una specie di dialogo sincretico tra le arti. Il film di Bene è fortemente legato alle esperienze teatrali ed al suo modo di concepire la posizione dei corpi e la sonorità delle voci in un contesto testuale, come, per esempio, nelle sue «interpretazioni» shakesperiane.

Il passaggio da romanzo a teatro e poi al cinema giustifica l’osservazione di Maurizio Grande che vede nell’opera di Bene una costante «revisione della cultura». Infatti, a partire dal progetto di ricostruire de-costruendo, Nostra Signora dei Turchi è la sintesi dell’immaginario doppiato da una realtà diforme. Il passato mitico dell’Otranto (campo del martirio cristiano sotto l’invasione turca alla fine del Quattrocento) diventa desacralizzato nelle scene in cui gli invasori infedeli vengono sostituiti dai turisti fedeli; la fenomenologia sempre invadente nel senso documentaristico della religiosità locale (siamo nel Salento, luogo di nascita di Carmelo Bene) viene anch’essa parodizzata dall’apparizione di Santa Margherita e dalle allusioni mistiche di forte ispirazione folcloristica e culturale (il riferimento alla figura femminile omonima del Faust goetheano è più che evidente).

Il rifiuto di essere tradizionale non vuol dire, per Bene, non in-corporare la tradizione, e perciò, come abbiamo già accennato, la presenza della realtà storica viene periodicamente puntualizzata da immagini con valore simbolico che attraversano i corpi dell’attore-personaggio Bene. La sua presenza in queste vesti annuncia contemporaneamente l’attualità della coesistenza tra il teatrale e il filmico nonchè il rifiuto della soggettività come semplice convenzione narrativa.

In quanto spettatore Carmelo Bene è costretto a guardare il corpo-immagine dell’uomo Bene, il quale anche da personaggio cavaliere nel film si comporta come se fosse fatto di movimenti e emissioni vocali che trascendono la finzione cinematografica. In Nostra Signora dei Turchi l’autobiografia incrocia i «segni» storico-culturali sicchè sia il significante soggettivo che quell’oggettivo si disperdono nell’assemblaggio di suoni ed immagini che costituiscono la cornice del film.

I tre livelli di lettura di Nostra Signora dei Turchi (segnalati anche da Maurizio Grande) corrispondono proprio a questo sdoppiamento dell’io narrante attraverso la semiotica gestuale e fonica. Storia, Autobiografia e Mito si intrecciano a vicenda nel segno della totalità frantumata e sporcata da invasioni quotidiane, come quella già menzionata dei turisti che raggiungono il Palazzo Moresco nel nome dell’invasione fisica senza contorni culturali, quindi peggio dei turchi. [fino pagina 285]

Ma vi è anche un altro tipo di invasione, quella causata dall’immaginario portato dalla cinepresa, con doppio significato anch’esso, di immagine registrata sulla pellicola nonchè commento critico al presente di quello che rappresenta la Storia nella mente della memoria colettiva. Su questo principio infatti è basata l’intera «arte poetica» di Carmelo Bene che ritiene l’immaginario piuttosto l’assimilazione visuale del passato inteso come momento disarmonico, non completamente sedimentato, del presente. La cancellazione dell’identità avviene molte volte durante il film come conferma dell’inesistenza di una sola possibilità narrativa. Oltre il barocco espressivo e che appunto esiste nella nostra memoria delle «cose», la concezione estetica di Bene suggerisce anche una ambiguità postmoderna che ricorda le famose reinvenzioni di identità di Borges. Carmelo Bene, cioè l’attore di nome Carmelo Bene che recita se stesso nel film, distrugge il suo doppelgänger vestito da turco che crea non soltanto confusione d’identità ma anche confusione di generi cinematografici (è evidente la parodia nei confronti dei film gangsters americani). Ma la parodia viene usata da Bene con ben altre intenzioni e va oltre le funzioni demitizzanti contenute nella morfologia dell’esercizio parodico. La distorsione della realtà, principio su cui si fonda la parodia, è sempre la condizione dell’espressione teatrale e cinematografica di Bene. Quello che Bene aggiunge di suo alle modalità parodiche è la convinzione che la presenza in senso di istante attuale può trasformare la realtà mitica sostituitasi proprio al presente.

Famoso è il monologo in cui il personaggio Bene rimpiange la sovversività delle reliquie, dei martiri religiosi e quindi del misticismo (rappresentato dalla presenza teatrica di Santa Margherita, simbolo di tutto l’erotismo meridionale storicamente associato al misticismo popolare): «Ci sono cretini che hanno visto la Madonna e ci sono cretini che non hanno visto la Madonna. Io sono un cretino che la Madonna non l’ha vista mai. Tutto consiste in questo, vedere la Madonna o non vederla».

Il ritorno alla normalità indica il desiderio di essere mutilato diversamente dal modo che insegna la via mistica: invece delle stimmata il diventare cretino, una voce deterritorializzata che ci manda alla frase deleuziana «brutalità del fatto» coniata per descrivere il modo di dipingere l’energia fisica di Francis Bacon. Francis Bacon, che comunque sarà «citato» da Bene attraverso l’immagine rovesciata del personaggio Bene, viene descritto da Deleuze come un pittore che nei suoi quadri sfoggia una brutalità vicino al sensoriale puro, come se la via cerebrale non essistesse.

La voce dell’io narrante in Nostra Signora dei Turchi si trova quindi continuamente a un bivio. Gridare la normalità («essere cretini») o gridare l’estasi mistica è in fin dei conti una scelta che spetta solamente alla voce. [fino pagina 286] In Nostra Signora dei Turchi Carmelo Bene vuole dimostrare che tutto quello che vediamo è raramente silenzio (la Storia, il Mito, la Fiaba) ma soprattutto voce ( il Presente, il Corpo, le immagini parlanti).

 


Bibliografia

Bene, Carmelo, Il teatro senza spettacolo, seguito da saggi critici. Padova: Marsilio, 1990

Certeau, Michel de, The Mystic Fable. Tr. Michael B. Smith. Chicago: U of Chicago P, 1992

Deleuze, Gilles, Cinéma 2: L’image-temps. Paris, Minuit, 1985

Grande, Maurizio, Materia e linguaggio. In Carmelo Bene. Il circuito barocco. Roma: Bianco e Nero, 1973